Dal reverendo Singh J.A.L. e dal professor Zingg R.M. veniamo a sapere di una storia davvero unica avvenuta in India negli anni '20 (Singh e Zingg, 1939)[30]. A onor del vero il protagonista in campo fu Singh mentre Zingg ne trascrisse e pubblicò i diari completandoli poi con notizie e considerazioni su altri bambini selvaggi. La vicenda ebbe inizio quando Singh, reverendo britannico, fu inviato come missionario a Midnapore in India. Il suo compito era quello di educare al cristianesimo alcuni rappresentanti delle tribù indigene e quindi riportarli tra la loro gente affinché divulgassero la dottrina appresa; un metodo affine a quello che abbiamo già conosciuto a proposito dei fuegini nell'articolo sull'eugenica .Una notte dell 'autunno del 1920, nei pressi di Godamuri, un uomo arrivò trafelato al villaggio: aveva visto con i propri occhi uno spirito maligno, un "Manush-Bagha", vagare nella giungla. Dopo un primo momento di stupore Singh, presente al racconto, si incuriosì e volle ulteriori ragguagli ma Chunarem, l'indigeno protagonista della vicenda, era impietrito dalla paura. Riavutosi raccontò che lo spirito aveva sembianze umane, si muoveva carponi e aveva una spaventosa testa di fantasma. Il reverendo dapprima lo tranquillizzò, poi, un po' per curiosità, un po' per la splendida occasione di dimostrare l'infondatezza delle superstizioni, gli disse che sarebbe andato a fondo nella faccenda. Il 9 ottobre 1920 Singh si fece accompagnare nel luogo dell'avvistamento, seguì le tracce finché non arrivò ad una specie di grande formicaio. L'attesa non fu vana, verso l'imbrunire qualcosa si mosse: era una famiglia di lupi composta da adulti, cuccioli e da uno strano essere dotato di mani, piedi e dal corpo simile a quello di un essere umano che camminava a quattro zampe. Giusto la testa era orribile con quei capelli lunghi e aggrovigliati che coprivano le spalle ed una parte del busto. Singh non ebbe alcun dubbio: era quello il fantasma di cui Chunarem aveva parlato! Ma le sorprese non erano finite. Alle calcagna del primo strano essere ce n'era un altro simile, solo più piccolo. I suoi occhi, così come quelli del compagno, parevano diversi da quelli umani, più brillanti, più penetranti, eppure il reverendo capì che quegli esseri non erano spiriti maligni: quelli erano semplicemente dei bambini selvaggi. Ora che Singh aveva scoperto l'arcano ed aveva individuato la tana non rimaneva che organizzare una battuta per catturarli. Singh aveva molto ascendente sui locali e cercò di radunare qualche volontario ma al momento di procedere se la filarono tutti, Chunarem compreso, terrorizzati dall'idea di mettersi a lottare contro il sovrannaturale. Il reverendo non si perse d'animo, si armò di santa pazienza e se ne andò in giro a reclutare gente dove la notizia del fantasma non era ancora arrivata. Di lì a qualche giorno gli uomini erano pronti e il 17 ottobre 1920 ebbe inizio la caccia. Percorsi una decina di chilometri gli uomini raggiunsero la tana, si disposero in cerchio ed iniziarono a fare un gran baccano a colpi di vanga e badile. Pochi minuti furono sufficienti per creare lo scompiglio. D'improvviso spuntarono due grossi lupi che si dileguarono, veloci, nella macchia poi, dopo un attimo di quiete, fu la volta di una femmina dal carattere più combattivo. Ben determinata a proteggere la vita dei suoi piccoli la bestia, impaurita e inferocita, andava dentro e fuori la tana cercando di incutere timore ringhiando a più non posso. Ovviamente le forze erano troppo sbilanciate a suo sfavore, e benché Singh avesse pregato di non usare le armi, venne trafitta dalle frecce e cadde a terra morta.A quel punto la caccia era terminata, non rimaneva che immobilizzare i due piccoli lupi e i due cuccioli d'uomo che ringhiavano minacciosi. Venne gettata una rete e il "gioco" terminò. Singh lasciò i lupetti agli uomini che lo avevano aiutato e portò con sé i due piccoli esseri umani, due femminucce, dopo averli ben legati perché non mordessero o tentassero la fuga. Già da tempo Singh aveva programmato un viaggio di cinque giorni e aveva fretta, così decise di affidare le bambine alla famiglia di Chunarem per portarle all'orfanotrofio della missione in un secondo momento. Purtroppo però aveva sottovalutato un fatto importante, la superstizione degli indigeni, e al suo ritorno l'attendeva una amara sorpresa: il villaggio era deserto; tutti gli abitanti, Chunarem e famiglia compresi, erano scappati per paura degli spiriti maligni. Le bambine selvagge erano rimaste senza acqua né cibo per un tempo imprecisato, ma erano vive. Con un po' di ingegno il reverendo diede loro i primi soccorsi e partì alla volta dell'orfanotrofio della missione. Lì lo attendeva la moglie, l'unica perso18 na a cui avrebbe confidato il segreto. Era importante non divulgare la notizia del ritrovamento per due semplici ragioni: primo, sarebbe stato più difficile trovar loro un marito una volta adulte; secondo, si sarebbero evitate un sacco di noie, domande, visite, inchieste, che avrebbero fatto soffrire le piccole e avrebbero rallentato il lavoro di missionario. Arrivate alla missione le due bambine furono lavate e rasate; ora apparivano più simili agli esseri umani. La più grande, a cui venne dato il nome Kamala, aveva circa 8 anni; l'altra, Amala, era molto più piccola, aveva, più o meno, 18 mesi. Se il loro aspetto fisico era migliorato, il carattere selvaggio rimaneva intatto. Nonostante le cure le bambine selvagge continuavano a ringhiare e a mordere, mangiavano con la bocca da ciotole posate a terra, passavano le loro giornate in un angolo e di notte diventavano attive scorazzando qua e là nel cortile dove erano tenute. Amala e Kamala camminavano e correvano esclusivamente sui quattro arti, e lo facevano con grande destrezza. Forse per le lunghe braccia e per il modo di alzare le ginocchia da terra correvano velocissime, come fossero scoiattoli. Anche i loro sensi erano animaleschi. La loro vista era acutissima e i loro occhi sembravano risplendere nell 'oscurità come fossero lupi. L'olfatto non era da meno, il più piccolo odore di carne, anche di un animale morto, le faceva accorrere subito. Non furono mai viste cacciare, tuttavia un giorno Kamala scappò alla vista della signora Singh con delle penne di uccello che gli spuntavano tra i denti. Le piccole non socializzavano, erano isolate in un mondo animalesco. Di quando in quando il reverendo tentò di metterle in gruppo o farle convivere con altri bambini dell'orfanotrofio, ma con scarso successo. Giusto una volta sembrarono stringere amicizia con Benjamin, un bimbo di un anno anch'egli abbandonato in natura, ma durò poco. Benjamin fu morso e da allora non ne volle più sapere di stare in loro compagnia. Piuttosto che giocare con gli altri Amala e Kamala preferivano dormire accucciate una sull'altra per poi muoversi con disinvoltura di notte. L'unica persona di cui si fidavano era la moglie del reverendo che, con una pazienza ed una bontà infinite, cercava di insegnar loro qualche norma elementare di comportamento. Ad esempio come camminare erette, come mangiare con le mani senza avvicinare la bocca al piatto o come tollerare gli abiti che indossavano. Niente da fare, i risultati furono pressoché nulli. E' vero che le due bambine-lupo ricambiavano l'affetto della signora Singh, ma lo facevano più come animali domestici che come esseri senzienti. Il reverendo, nel suo diario, fu piuttosto chiaro. Ritenne più appropriato usare il termine taming (addomesticamento) piuttosto che insegnamento. Il tempo trascorse e l'anno successivo le bimbe si ammalarono gravemente. Fu chiamato un medico, il dottor Sarbadhicari, che, come è facile immaginare, pretese delle spiegazioni plausibili per quegli stani esseri dell'orfanotrofio. Singh fu costretto a raccontare l'intera vicenda ma lo pregò di non farne parola con nessuno. Richieste vane! La notizia si diffuse velocemente in tutta l'India giungendo poi all'Europa e quindi all'America. Comunque sia, le povere bimbe erano letteralmente infestate dai vermi intestinali. Qualcosa di veramente disgustoso: dei vermi rossicci lunghi una quindicina di centimetri e grossi quanto il mignolo di una mano. La cura le aiutò a liberarsene (giusto per la cronaca la piccola ne espulse diciotto la grande 116) ma nonostante ciò Amala spirò il 21 settembre 1921. Kamala, che non aveva mai mostrato emozioni, annus ò la compagna e pianse due lacrime. Stranamente, anche in quel caso, sembrò inespressiva. Non era né triste né affranta, eppure per alcune settimane rimase accucciata in un angolo e anche dopo mesi, di tanto in tanto, fu vista annusare il luogo dove la piccola Amala era solita dormire.
Gli anni passarono e Kamala qualcosa imparò. Iniziò a vestirsi come le altre bambine ma non fece veri progressi: continuò a mangiare con la bocca nel piatto per terra e non parlò mai. Kamala emetteva una trentina di suoni che associava ad oggetti secondo un significato tutto suo e che non usava mai per fare domande. Se voleva qualcosa grugniva fino a quando la tutrice nominava l'oggetto giusto, allora faceva sì con la testa. Tutto qui. Forse la bambina-lupo indiana necessitava di un programma di apprendimento più moderno, più adatto alla sua condizione, ma quando gli psicologi occidentali si resero conto che potesse essere utile per capire le basi dell'apprendimento era già troppo tardi. La Psychological Society di New York la richiese ufficialmente nel 1928 ma Kamala si stava indebolendo sempre più. Il 14 novembre 1929, più o meno all'età di 17 anni, la ragazzina morì senza che venisse elaborata una diagnosi certa.
martedì 28 aprile 2009
VICTOR
Verso la fine del XVIII sec.,nell' Aveyron in Francia, correva voce che un essere selvaggio girovagasse nel bosco cercando radici e ghiande. Nel settembre 1799, tre cacciatori riuscirono a bloccarlo mentre si arrampicava su un albero. Con loro grande stupore si trovarono di fronte un ragazzino nudo, sozzo, dalla carnagione chiara, che si dimenava per sfuggire alla cattura. Aveva capelli lunghi,sporchi e aggrovigliati,denti affilati e gialli,occhi bruni,naso lungo ed appuntito,mento sfuggente e un collo elegante sfigurato da una cicatrice. Aveva più o meno 12 anni, ma era alto un metro e 40. Ringhiava e tentava di mordere chiunque. Il ragazzino fu legato,portato in paese e affidato ad una vedova che tentò di dargli un po' di affetto ed un minimo di educazione. Niente da fare:il giovane andava avanti ed indietro come un animale in gabbia, sputando, orinando e defecando ovunque. Alla fine i suoi ripetuti tentativi di fuggire riuscirono e dopo due giorni tornò fra le montagne.Venne l' inverno e i villici si chiesero se quell'essere potesse resistere al freddo e alla neve.Dapprima fu avvistato seminudo in lontananza. Dapprima fu avvistato seminudo in lontananza, poi fu visto scorazzare, sempre più spesso, vicino al villaggio. In primavera venne catturato di nuovo e questa volta in maniera definitiva. Fu trasportato all'ospedale Saint-Afrique.Il ragazzo dell'Aveyron venne richiesto a Parigi dove l'interesse e la curiosità crebbero di giorno in giorno. Il famoso ed esperto psicologo Philippe Pinel mise a tacere le voci discordi che si erano levate sul suo conto: il selvaggio era un ritardato mentale che differiva dalle piante solo perché si muoveva e gridava. La diagnosi era autorevole e non lasciava spazio a repliche, tuttavia si trattava di una crescita in un contesto estraneo all'esperienza sociale e, come tale, lo studio andava approfondito.
Jean-Marc-Gaspard Itard, un medico appena ventiseienne, assunse l'incarico e subito si appassionò al caso. Quel selvaggio, così abulico e assente, non gli sembrava affatto ritardato. Nel suo modo di essere, anche se fissava il vuoto e si dondolava ossessivamente, c'era qualcosa che sembrava nascondere un'intelligenza latente in attesa di esprimersi. A riguardo i dati bibliografici non erano di grande conforto, tutti concludevano che nulla si potesse fare per educare i ragazzi selvaggi, ma Itard si convinse che le testimonianze precedenti erano poche, incomplete e frammentarie, e un apprendistato adeguato avrebbe riportato alla normalit à il suo giovane paziente. Sarebbero stati necessari svariati anni, è vero, ma ne valeva la pena. Itard pianificò i suoi obiettivi: 1) interessarlo alla vita sociale; 2) risvegliare la sua sensibilità nervosa; 3) migliorare la sua fantasia; 4) insegnargli a parlare attraverso l'imitazione; 5) farlo esercitare nelle operazioni più semplici per poi allargargli i processi mentali. Lo chiamò Victor, per quel suo strano modo di girarsi ogni qual volta si esclamava "Oh!", e si mise al lavoro.
Da quando era arrivato a Parigi, Victor si era chiuso in se stesso.
Per prima cosa bisognava rendergli la vita più stimolante. Itard tentò regalandogli dei giocattoli, ma l'idea non ebbe successo. Victor rimaneva nel suo stato di perenne apatia per risvegliarsi solo in circostanze particolari. Dopo 5 lunghi anni di duro lavoro senza risultati il dottore divenne sempre più irascibile, perse spesso la pazienza, sfiorò persino la crudeltà e nel 1806 prese l'unica decisione possibile: rinunciò. Così scrisse: "Ho sperato invano. E' stato tutto inutile. Sono svanite così le brillanti attese su cui mi ero basato". Si pentì di aver iniziato quell'esperienza ed arrivò a condannare la "sterile inumana curiosità degli uomini che avevano strappato Victor dal suo posto". La storia del ragazzo dell'Aveyron finisce qui. Victor visse ancora a lungo, ma né gli insegnamenti di Itard, né le cure della sua tutrice Madame Guérin proseguite per oltre trent'anni, lo fecero mai cambiare.
Jean-Marc-Gaspard Itard, un medico appena ventiseienne, assunse l'incarico e subito si appassionò al caso. Quel selvaggio, così abulico e assente, non gli sembrava affatto ritardato. Nel suo modo di essere, anche se fissava il vuoto e si dondolava ossessivamente, c'era qualcosa che sembrava nascondere un'intelligenza latente in attesa di esprimersi. A riguardo i dati bibliografici non erano di grande conforto, tutti concludevano che nulla si potesse fare per educare i ragazzi selvaggi, ma Itard si convinse che le testimonianze precedenti erano poche, incomplete e frammentarie, e un apprendistato adeguato avrebbe riportato alla normalit à il suo giovane paziente. Sarebbero stati necessari svariati anni, è vero, ma ne valeva la pena. Itard pianificò i suoi obiettivi: 1) interessarlo alla vita sociale; 2) risvegliare la sua sensibilità nervosa; 3) migliorare la sua fantasia; 4) insegnargli a parlare attraverso l'imitazione; 5) farlo esercitare nelle operazioni più semplici per poi allargargli i processi mentali. Lo chiamò Victor, per quel suo strano modo di girarsi ogni qual volta si esclamava "Oh!", e si mise al lavoro.
Da quando era arrivato a Parigi, Victor si era chiuso in se stesso.
Per prima cosa bisognava rendergli la vita più stimolante. Itard tentò regalandogli dei giocattoli, ma l'idea non ebbe successo. Victor rimaneva nel suo stato di perenne apatia per risvegliarsi solo in circostanze particolari. Dopo 5 lunghi anni di duro lavoro senza risultati il dottore divenne sempre più irascibile, perse spesso la pazienza, sfiorò persino la crudeltà e nel 1806 prese l'unica decisione possibile: rinunciò. Così scrisse: "Ho sperato invano. E' stato tutto inutile. Sono svanite così le brillanti attese su cui mi ero basato". Si pentì di aver iniziato quell'esperienza ed arrivò a condannare la "sterile inumana curiosità degli uomini che avevano strappato Victor dal suo posto". La storia del ragazzo dell'Aveyron finisce qui. Victor visse ancora a lungo, ma né gli insegnamenti di Itard, né le cure della sua tutrice Madame Guérin proseguite per oltre trent'anni, lo fecero mai cambiare.
lunedì 27 aprile 2009
FEREAL CHILDREN
Chi non ha mai sentito parlare dei feral children, quegli esseri umani abbandonati infasce e cresciuti allo stato selvatico grazie al buon cuore degli animali? Dall ' altra parte è logico pensare che i neonati indesiderativenissero veramente abbandonati in prossimità di zone selvagge. Succede anche ai giorni nostri. Sicuramente i casi scoperti sono una minoranza e tanti bambini muoiono in breve tempo, tuttavia, ogni tanto incredibilmente qualcuno riesce a sopravvivere. Alcune volte gli animali sono più caritatevoli di quanro possa sembrare a prima vista! Un esempio plausibile è ciò che è accaduto nello zoo di Chicago nel 1996.Un bambino di 3 anni cadde in un recinto di gorilla. I testimoni raccontano che una femmina di gorilla lo raccolse, lo cullò fra le braccia e lo portò in prossimità del cancello dove i guardiani erano accorsi.Secondo Linneo l'essere umano trovato nel basco era tetrapus, mutus , hirsutus, ed era sicuramente di una varietà diversa dal resto della specie umana. Lo chiamò homo sapiens ferus. Le ragioni dell'abbandono possono essere tante, dalla povertà al degrado, dalla vergogna a gravidanze indesiderate portate a termine. In paese come l'India o la Cina i neonati possono essere abbandonati per evitare sanzioni:il controllo delle nascite è regolamentato da leggi dello Stato. Gould sosteneva che questi feral children erano pazzi o ritardati e per questo venivano abbandonati.
Iscriviti a:
Post (Atom)